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È possibile lodare Dio con un lamento? È ammissibile che il ricordo delle meraviglie divine giunga a mettere in discussione la credibilità di chi le ha compiute? Si può accettare che l'uomo assalga il Creatore con domande, imperativi e arrogando diritti? Tutto questo è ciò che avviene nel testo di Isaia 63,7-64,11. Il brano prende avvio con un intenso canto di lode; come in un grande inno di ringraziamento, il racconto passa in rassegna la storia della relazione di Dio con il suo popolo, il suo progetto di paternità, la cura amorevole e piena di compassione, il perdono usato, la guida costante e sicura fino al luogo del riposo. Poi però, come a un tratto, il tono cambia: il racconto cede spazio alle domande e agli imperativi, il Dio vicino appare indifferente nei cieli, mentre il popolo permane in un luogo di distruzione, alla mercé del proprio peccato. Con immagini che descrivono un dramma e con interrogativi carichi d'irruenza, si presenta una situazione totalmente capovolta rispetto all'inizio e che lascia trasparire una forte responsabilità divina e un destino inesorabile per l'uomo. Non stupisce che questo brano abbia trovato nella storia ampia risonanza e uso: non solo l'apostolo Paolo si rifà al passo di Isaia, ma la stessa preghiera di Gesù, il Padre Nostro, rivela una vicinanza e una dipendenza suggestive; inoltre il testo è stato fatto oggetto, più volte, della meditazione e della predicazione dei rabbini e dei Padri della Chiesa, e ad esso si è rifatto anche Lutero...